Testi

A UN PASSO… DENTRO

catalogo monografico

Anche oggi è laggiù| testo a cura di Irene Biolchini

Editore Vanillaedizioni | marzo 2020

Anche oggi le lavandaie vanno a lavare i panni al Ticino, anche oggi è laggiù, senza perché, la già vecchia città di provincia col ponte coperto

Laggiù è il ventre della casa dove Eva Reguzzoni instancabile lavora. Laggiù è la provincia che abbraccia il lago, che guarda il Ticino. Laggiù, vicino al bosco, l’artista ha scavato la buca in cui cuoce le sue ceramiche.

È un giorno pieno di nebbia e freddo quello in cui mi mostra quella fossa di terra e fango, coperta da poche foglie e assi. Quando tornerà la primavera ricomincerà la cottura, intanto l’inverno vede fiorire muffe sui pezzi lasciati all’aperto. Eva ne controlla le incrostazioni, ne esamina il risultato. La formazione da restauratrice le serve come un processo inverso: il suo scopo non è più pulire e rincollare, ma anzi distruggere, separare e coltivare gli accumuli. Gli oggetti iniziali, levigati e lavorati con cura dall’artista perdono in questo passaggio la loro perfezione per acquisire nuove letture, nuovi strati. La cottura primitiva, a bassi gradi, annerisce i pezzi, li rende fragili e proni alla rottura e alla separazione. Sarà poi l’artista a riassemblare questi frammenti nelle sue installazioni, a ritrovare un’unità nella serie e non più nel pezzo singolo.

C’è qualcosa di perennemente sommerso, silenzioso e privato nella sua ricerca. Un incedere che rielabora, annoda e ricama i propri temi. Senza temere la ripetizione, ma abbracciandola come possibilità, come liberazione e automatismo. Un modo di lavorare che Eva porta con sé attraverso le tecniche e i linguaggi che adotta, lasciando al caso un ruolo centrale. Se le ceramiche si disgregano, anneriscono e incrostano in maniera naturale (senza che un vero e proprio controllo possa essere messo in atto), lo stesso vale per le sue garze imbevute, che solo parzialmente rispondono all’idea iniziale dell’opera. Perché in ogni passaggio, ogni volta che la garza si appoggia, la quantità di inchiostro rilasciata può essere solo in parte dominata e controllata. E lo stesso vale per le foglie che Eva raccoglie nel proprio giardino e lascia essiccare: i fori, le imprecisioni che la natura sviluppa (prima con l’azione di piccoli insetti che ne mangiano la superficie e dopo nell’aprirsi di questa materia viva e fragile anche una volta essiccata) diventano i segni, le caratteristiche peculiari del supporto pittorico. Quello che sta alla base della pittura è un terreno accidentato, molto distante dal candore e dalla perfezione della tela. Un campo di imprevisti che possono essere usati come punti di partenza per uno sviluppo organico: la mano segue le venature e le imperfezioni, senza correggerle, ma integrandole. 

Ciò che accade nella pittura delle foglie accompagna anche la produzione con la terra: un continuo sperimentare con materiali e colori che ogni volta reagiscono al calore in modo diverso. Un aprirsi e sfrangiarsi che viene tenuto assieme dal filo di rame, arrotolato senza una consapevole costruzione architettonica, ma come gesto di iterazione: annodare il rame attorno al materiale più e più volte, lasciando andare la mano, azzerando la consapevolezza e aprendosi al caso. Vi è in questa ripetizione memoria dell’automatismo surrealista, e proprio dal surrealismo arriva tanta ispirazione anche per le sue ceramiche più irregolari: forme organiche da cui emergono conchiglie, capelli, oggetti. Vi è in questi lavori memoria delle ceramiche di Miró (in cui gli oggetti trovati sulla spiaggia si fondevano nella scultura),  ma anche di certi accumuli perturbanti di Louise Bourgeois, fino ad arrivare alla più recente – e forse stringente – Anna Maria Maiolino. 

Come è stato per la Maiolino, così per Eva la ripetizione silenziosa all’interno del proprio studio porta ad un processo di progressiva consapevolezza e conoscenza: nel mutismo del lavoro si attiva il dialogo con ciò che la Maiolino definisce collettivo e che per Eva è invece l’universale silenzio dei suoi boschi. Entrare in queste pagine è spingersi verso il laggiù del bosco, ma anche il laggiù del suo silenzio, del suo studio e della sua ricerca. 


 

BLOOD ON THE FLOOR

Ipotesi ai limiti della figurazione

Giuseppe Buffoli |Joykix | Eva Reguzzoni |Danilo Vuolo

Walk-in Studio- Festival degli spazi e studi d’artista |Giugno 2018  

A cura di Rossella Moratto

L’impellenza della necessità spinge ad abbandonare il già noto e a spingersi verso territori incerti. Il bisogno è quello di dare nuova autenticità e verità alla forma, distruggendone le sovrastrutture narrative e normative. Per farlo bisogna compiere un atto estremo: uccidere il figurativo. Partendo dalla scena di quel delitto – Blood on the Floor è la scena di quel crimine –  Giuseppe Buffoli, Joykix, Eva Reguzzoni e Danilo Vuolo compiono un’indagine sulla decostruzione delle logiche della rappresentazione per cercare la pura presenza del gesto, dell’oggetto e del segno intesi come unica possibilità di comunicazione e testimonianza. Privilegiare la presentazione sulla rappresentazione sull’esempio di Francis Bacon che estrae la “figura” esponendola clinicamente sul tavolo autoptico. Un’operazione di chirurgia sperimentale sulla figura che la  spoglia, la seziona, la decostruisce, la scandaglia nel profondo per poi ricrearla come fa lo scrittore – citando Gilles Deleuze – che inventa «nella lingua una nuova lingua, una lingua, in qualche modo, straniera. Trascina la lingua fuori dai solchi abituali, la fa delirare.» Nello stesso modo qui si interrompe il gioco del rimando, si azzerano i nessi logici e si elimina la concatenazione drammatica, si procede episodicamente secondo logiche di autoalienazion e che prescindono da ogni necessità di verifica comunicativa. 

Blood on the floor delimita una dimensione affrancata dalla logica comune, dalla costrizione della concatenazione causa-effetto, un teatro di attori-testimoni che coabitano in una relazione di prossimità, uniti nel comune destino di essere singolari accadimenti dei quali, contrariamente a quanto avviene nell’esperienza quotidiana, non dobbiamo cercare forzatamente connessioni e legami ma solo constatare la loro esistenza.

La figurazione – intesa come rappresentazione di un modello o di una narrazione altra-da-sé – è stata uccisa – esistono solo figure.

Giuseppe Buffoli per esempio, parte dal corpo e dal processo costruttivo della scultura per disfarlo inesorabilmente, mettendolo a nudo e svelando l’arcano – mostrando il calco e la matrice, rivelandone cioè la genesi – e allo stesso modo disfa il corpo e ne estrapola l’organo che sta all’interno che nella solitudine del lacerto si trasforma e diventa carne cioè materia prima. Forme informi, instabili stabili, finite e non finite colte nel processo del farsi attraverso un’operazione di selezione e sgrezzamento. Analogamente Eva Reguzzoni maneggia creta cruda sulla quale registra direttamente per impressione sensazioni o traumi, tracce sismografiche che non si possono tradurre in metafora. Sono resti, brandelli smembrati, destinati alla lenta dissoluzione segnata dall’evaporazione della linfa liquida che li impregna. Joykix invece è un occhio senza testa che si triplica, mera tensione scopofilica schizofrenica negata dall’impossibilità di vedere se non i dettagli di un’esplorazione convulsa, non direzionata: apparizioni monoculari intermittenti senza alcuna seduzione, anzi quasi repulsive, percorse dal brivido di rumori striduli e fastidiosi che emergono a tratti in sottofondo: segnali indecifrabili di un linguaggio estraneo.  Una perlustrazione nel sottosuolo da dove sembra provenire anche una voce, quella di Danilo Vuolo che azzera la sua azione performativa nella sola parola, dal timbro artificiale con cui declama un discorso solo apparentemente intelligibile, il cui senso si destruttura nell’ascolto dell’affabulazione e della reiterazione. Il tentativo di racconto abortito nell’impossibilità di narrare dice di un’identità alienata e inafferrabile, dai lontani rimandi beckettiani che esprime solo un’urgenza primaria, solipsistica.  Sono tutti frammenti di un corpo senza organi, privo di organizzazione interna e di intento comune, abitato da tensioni che si esprimono senza mediazioni nella loro cruda evidenza. Sono alterità che declinano ipotesi ai limiti della figurazione, portatrici di un realismo che, citando ancora Bacon «nella sua espressione più profonda è sempre soggettivo» perché «quando dipingi qualcosa non stai dipingendo soltanto quel soggetto ma insieme stai dipingendo anche te stesso. Perché la pittura è un atto che si fa in due».  E qui pittura sta per scultura, installazione, vocalità, ipotesi di figurazione che non raffigura il reale, non lo rappresenta ma lo presenta  nell’unico modo possibile cioè in  rapporto con la propria individualità, qui e ora, nel territorio di confine tra l’io e il mondo ma contemporaneamente fedele alla natura propria di immagine.


 

PRESUNTO 

(che potrebbe essere vero solo sulla base di congetture, indizi e simili, ma può anche rivelarsi falso)

KCC – Kusthallecc | settembre 2018

A cura di  Valentina Petter

Eva Reguzzoni è un’artista intimista, che ha concentrato la propria ricerca artistica intorno alle problematiche della vita interiore, al racconto della natura umana attraverso i manufatti e le implicazioni manipolatorie della materia. A KCC si presenta quasi come un’antropologa e propone un trittico – presunto (che potrebbe essere vero solo sulla base di congetture, indizi e simili, ma può anche rivelarsi falso) – composto da tre cassette sovrapposte, contenenti frammenti di materia scomposta, reperti e testimonianze di ricordi perduti. Ognuna riflette l’intima presenza di un sé: i cocci di ceramica come frammenti del sé; le conchiglie e i residui marini rappresentano gli involucri del sé; mentre i sassi e materiali raccolti in riva al lago sono veri e propri oggetti del sé, sormontati dalla presenza inquietante e significativa di una pelle di serpente realizzata in terraglia. La mutevolezza del serpente così come l’ordinamento dei materiali all’interno delle cassette, seguono la legge della casualità causale e trasmettono all’osservatore la sensazione di trovarsi di fronte a una sorta di diario inconscio e emozionale in fieri. I confini frastagliati dei materiali raccontano attivamente il ruolo della cultura umana e del suo rapporto con la natura, creando una visione olistica, in cui natura e esperienza si incontrano, per dire che il tutto è più che la somma fra le parti.


 

RICAMI su veline bianche 

Dot Room | aprile 2018

Testo a cura di Rossella Moratto

RICAMI, una  riflessione sul cambiamento dell’arte del ricamo, da tradizione artigianale a medium linguistico indagato da molte artiste (Annette Messager, Louise Bourgeois, Maria Lai, Bice Lazzari, Rosemarie Trokel, Tracey Emin).

Un ricamo spurio, che si contamina con segni di altra natura formando un insieme complesso e frammentario, potenzialmente in continua espansione, che rimanda alla dimensione ambientale dell’arazzo.
Un ricamo che si discosta radicalmente dalla tradizione e dal sapere artigianale, che non si traduce in ornamento su stoffa ma in massa proliferante su un supporto umile, fragile e precario come la carta velina, ripiegata a più strati. Su questa materia sottile e frangibile l’artista traccia delle linee curve e tortuose che si associano liberamente in forme metamorfiche dall’apparenza di radici, steli e foglie che hanno in sé il germe della loro trasformazione. Sono geografie arborescenti in cui si sedimentano le tracce di ricordi, traumi, emozioni e sentimenti: così Eva Reguzzoni descrive il percorso intimo, viscerale, autoanalitico che porta avanti come un’opera di scavo, nel profondo e a ritroso nella memoria, condotta con un approccio empirico ed emotivo che lascia spazio all’irrazionalità e al caso, all’associazione e alla disgregazione, all’automatismo e all’instabilità.
Le linee sono come segni registrati da un sismografo: testimoniano le oscillazioni emotive e i sussulti sotterranei e segreti, scanditi dal ritmo lento dell’ago e del filo che, trapassando la leggera superficie del supporto, metafora della pelle e del confine, collegano il mondo esterno con la realtà interna. Ogni punto apre un interstizio che permette di passare fluidamente dal conscio all’inconscio, dall’epidermide alle viscere, dall’io all’altro, per riemergere dagli strati profondi e farsi forma. Le impunture del filo disegnano arabeschi irregolari e inesatti, impuri e ibridati da pieghe, macchie e da altri segni tracciati con l’inchiostro o impressi a contatto associati a frammenti di garza ripiegata.
I fili uniti ai segni compongono un organismo mutante senza corpo che produce spinificazioni corticali, cirrazioni periferiche, rigonfiamenti, tuberizzazioni e succulenze, proliferazioni parassitarie e gemmificazioni ipertrofiche che si protendono disordinatamente prendendo possesso di tutto lo spazio disponibile, piegandosi su se stesse in un movimento riflessivo e autistico oppure dispiegandosi imprevedibilmente con intensità variabile. Reguzzoni rappresenta vegetali onirici che rompono la simmetria verticale e la crescita razionale e progressiva dell’albero per far emergere l’asimmetria orizzontale e l’irrazionale sviluppo della molteplicità eterogenea del rizoma.
«Un rizoma non incomincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo» (Gilles Deleuze, Félix Guattari, Millepiani). Allo stesso modo, il ricamo rizomatico di Eva Reguzzoni rappresenta poeticamente il flusso incessante del molteplice che avvicina inaspettatamente entità distanti e apparentemente estranee, anche se compresenti e lontanamente apparentate, come l’umano e il vegetale.


 

In accumulo o in sospeso ma in equilibrio # 2

Fondazione Bandera per l’ Arte |  2017

Testo a cura di Rossella Moratto

Eva Reguzzoni sembra a guardare al passato: i suoi reperti invadono lo spazio, si disseminano, colonizzatori e virali, procedendo per accumuli. Il suggerimento remoto è però solo tecnico: si tratta di argille e concotti realizzati con metodi di cottura sperimentali che riprendono quelli primitivi. 3017 A.C., come evoca il titolo della serie cui appartengono i frammenti esposti, non indica però un viaggio temporale ma interiore: si tratta di parti del corpo, di apparati vitali – circolatorio, drenante, scheletrico ed epidermico – segnati da rotture evidenziate in oro che testimoniano esperienze e traumi e anche l’ineludibile inevitabilità del caso. È un lavoro intimo, viscerale perfino autoanalitico, che scava nel profondo dei propri sentimenti e turbamenti e si infiltra capillarmente, con una attitudine contraria, quasi come forza sottile, ma potenzialmente distruttiva, nella simmetria regolare del ritmo strutturale che sembra avanzare invece in una progressione senza dubbio.


 
 
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In accumulo o in sospeso, ma in equilibrio

STUDI FESTIVAL | 2017

Testo a cura di Rossella Moratto

Tre artisti – Joykix, Eva Reguzzoni, Gianluca Quaglia – accettano la sfida di confrontarsi in un contesto di negoziazione non convenzionale, realizzando un’installazione a sei mani. Lo spazio dell’incontro è l’opera-struttura di Joykix – ultimo sviluppo della serie Volume – che diventa il display per i lavori degli artisti che si esprimono con media diversi e sviluppano ricerche eterogenee, quasi opposte, che hanno imposto alla struttura modulare che li accoglie la sua configurazione attuale, in una dinamica di limitazioni e libertà reciproche. Le distanze poetiche, tecniche ed espressive sono lo stimolo che dà avvio alla complessa relazione – che può anche risultare fallimentare – che determina l’esito dell’opera.

L’approccio di Joykix, razionale e costruttivo, fondato sulla pratica del progetto e legato a un ripensamento del razionalismo fa i conti con quello più intimo e viscerale, autoanalitico di Reguzzoni che invece guarda a ritroso, alla dimensione della memoria ricercata con tecniche antiche e desuete e quello estroverso di Quaglia, basato su logiche relazionali e inclusive rispetto al contesto in cui l’intervento si inserisce, in modo lieve ma quasi virale, con strategie di occupazione. La mostra è quindi il teatro in cui si sviluppa la narrazione dei tre personaggi-autori su molteplici livelli, come interazione fisica e mentale con la struttura data, che diventa insieme ambito familiare e corpo estraneo, luogo da abitare e spazio da conquistare.

La mostra e l’opera coincidono manifestandosi in accumulo o sospeso ma in equilibrio, analizzando allo stesso tempo la sua logica espositiva. È un dispositivo che amplia l’ambito di azione e interazione, rovesciando ruoli e punti di vista, istituendo altre regole e parametri concettuali. La dinamica di incontro/scontro non è determinata da tematiche o suggestioni date a priori ma dalla concreta ricerca di una convivenza che si attua nel processo partecipativo e problematico della costruzione del lavoro.


 

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FRAGILI PROFONDITà

Museo del Territorio Biellese | marzo 2017

Testo a cura di Marco Roberto Marelli

Un’eccedenza emotiva dell’anima che si fa delicata materia, così sottile e leggera da bruciare l’universo. Un’emozione non accetta definizioni, solo immagini che procedono per esempi di un tutto che eccede sempre le singole parti. Sono presenze fragili, in ceramica grezza cotta in buca, le opere realizzate da Eva Reguzzoni (Gallarate, 1965) per il Museo del Territorio Biellese. Sono strumenti sensibili che raccontano quanto impercettibili possano essere quegli sbalzi di umore che cambiano la nostra percezione del mondo, che ci spostano, in maniera repentina e inattesa, da una sfera dell’esperienza a un’altra. In Un, deux e trois strati di nuda materia si alternano a coloratissimi “bachi da setola” che, distanziati fra loro da elementi in acciaio, generano una stratigrafia dell’esistenza umana, un’epidermide in bilico fra storia personale e collettiva fatta di momenti duri e anonimi e di attimi prolungati di morbida felicità. E proprio una morbida isola si fa superficie aliena su cui si muove un mondo fecondo e primigenio fatto di ceramica antica e magmatica. L’installazione Miscellanee contemporanee, in dialogo con i lacerti di affresco esposti alle pareti del museo, ospita piccole inflorescenze di giallo sgargiante, simboli di quella forza inarrestabile della vita che emerge sempre, dal profondo della terra e dal profondo della nostra infelicità.

Attraverso uno stretto rapporto fra il portato emotivo e concettuale dell’opera e l’utilizzo di un materiale che ritorna alle sue origini, Eva Reguzzoni si fa archeologa dell’anima evidenziando quelle sensazioni emotive che noi tutti percepiamo e che rendono vana la distinzione fra corpo e anima verso un ritorno all’antica parola nèfesh.


 

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HERBARIUM

Monastero degli Olivetiani | giugno 2015

Testo a cura di Fabio Carnaghi

Il regno vegetale è un grande repertorio da sempre legato alla primaria sussistenza dell’uomo e in particolare alle sue proprietà terapeutiche e medicinali. Herbarium è un excursus attorno alle anatomie vegetali, che individua una similitudine quasi fisiognomica tra forme fitomorfe e conformazioni dell’interiorità umana. Nelle opere di Eva Reguzzoni l’indagine di queste tematiche è essenziale e si manifesta significativamente in sedimentazioni di inchiostro, frammenti di garze o cuciture di filo su carta, quasi fogli di un volume immaginario su cui resta la stratificazione di un processo di elaborazione. L’equivoco nella procedura estetica propria dell’artista si insinua nel pensare alla pratica amanuense ed è lecito liberare l’immaginazione verso un erbario accuratamente miniato e frutto di copiatura basata sull’analogia di forme organiche, siano esse naturali o umane. Il percorso che connette lo stato d’animo con le dinamiche vegetative allude all’equilibrio di forze in cui l’umano si mimetizza nell’habitat naturale. Queste tracce vegetali raccolgono con grande interesse un senso illustrativo ed iconografico che risente della suggestione inconscia derivata dalla tradizione del disegno botanico descrittivo. Come in un Herbarum vivae eicones Reguzzoni declina l’elemento vegetale in un arcano tracciato di fili ed impressioni ora rigorosamente bicromatiche in bianco e nero, ora affidando al colore una simbologia pressoché figurale. L’attinenza di queste rappresentazioni con lo spazio monasteriale in cui vengono collocate permette di esplorare e confrontare negli andamenti, l’ulteriore valenza fitomorfa del decoro che nelle tracce di partiture affrescate scopre candelabre cinquecentesche, ribadite nelle simmetrie speculari degli arazzi di carta bianca affiancati dall’artista. Cammei di specie viscerali intricate, rigogliose fioriture nell’ambiguità di varietà benefiche o venefiche, ecosistemi rizomatici o grovigli linfatici esplorano vasti terreni di questioni fisiologiche presocratiche, di antiche saggezze farmacologiche, di armonie decorative, di allegorie medievali. La tecnica dell’artista parte dall’impiego del ricamo per segnare e marcare tracciati filiformi che si addicono alla somiglianza con lo sviluppo vegetativo. Ne deriva una dimensione empatica che condivide relazioni primordiali tra la vita umana e quella vegetale. Dai fiori alle radici le traiettorie innervate di fili sottili o fibrosi descrivono anatomie intercambiabili tra fisicità e soffio vitale. L’immersione nella ciclicità di generazione, crescita, decadimento, morte e rinascita rappresenta il profondo equilibrio del mondo vegetale a cui l’umano incessantemente aspira.


 

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SECONDA NAVIGAZIONE

Chiesa San Gregorio | ottobre 2014

Testo a cura di Fabio Carnaghi

Il bianco cartaceo, primario ed essenziale è elemento che conferma la sua natura inscindibile di supporto e medium espressivo nell’opera di Eva Reguzzoni. una sorta di tabula rasa assume tutte le valenze cognitive dell’impressione sull’intelletto. Sembra che questa pratica quasi ancestrale faccia parte di un’antropologia pressoché misterica e in questo ambito svolga il ruolo di metafora filosofica, misurata con la saggezza esperenziale, alla stregua di un mito platonico. Eva Reguzzoni sviluppa la sua ricerca artistica tendendo a sfuggire la policromia, sperimentando la neutralità di un apparente non colore o il contrasto manicheo del bicromatismo, immergendosi in un clima orfico, intento alla ricerca interiore. Il bianco è cosi il vuoto subliminale, l’attesa propedeutica all’elaborazione artistica, che nell’operare di Reguzzoni diventa esso stesso rappresentazione, nella concretizzazione di un paesaggio metafisico che prende forma. L’atto di imprimere, cucire, ricamare e lasciare il segno di una grafia, che si stratifica e sedimenta, è una dinamica interiore che trova spazio e si aggrappa sulla fragile ed eterea superficie di un velo di carta, luogo di resistenza e di tenace sopravvivenza. Il bianco è il grado zero della persistenza e della fossilizzazione da cui emerge la  valenza performativa dell’elaborazione creativa di Eva Reguzzoni che dall’interiore sonda l’ulteriore, ricorrendo ad uno spontaneismo naturale, attentamente studiato nelle sue contingenze organiche. Il bianco è la materia prima su cui si innesta il segno e la trama di un’evoluzione verso la trasfigurazione. Dalle visceralità ctonie, dai fitomorfirsmi  rigogliosi, dalle fisiologie anatomiche, il percorso nell’interiorità si spinge oltre la conoscenza. Grandi arazzi descrivono traiettorie ascensionali in continuo movimento, divenendo ricettacolo a sinopia di ogni fenomeno intenzionale o occasionale, raccogliendo traccia di pulviscolo e di ogni sovrastruttura. In questi termini, il supporto bianco annota con inesorabilità la protezione di un viaggio nei territori dell’ombra e della luce. Ne deriva un itinerario in folio che  svolge una mappa geopsichica: il nero dell’oscurità e il rosso della contaminazione carnale individuano un’inevitabile polisemia simbolica del colore. L’elemento cromatico sottolinea e coadiuva il nero che continua ad essere essenziale insieme all’oro, sostanza della luce. Un oro metallico, bizantino e insieme barbarico, allude alla purezza preziosa di un’età mitica, aspirazione al ritorno ad uno stato sublime di pienezza e di pace interiore.


 

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ER. IL MITO DELL’INTERIORITÀ

Villa Rusconi  | maggio 2014

Testo a cura di Fabio Carnaghi

Il titolo prende spunto dal mito di Er, attraverso un gioco di ambiguità con le iniziali dell’artista. Er, guerriero di Panfilia, nel decimo libro della Repubblicadi Platone, racconta la sua esperienza nell’Ade  e svela la vita dell’anima dopo la morte.
L’artista realizza un progetto site specific di dialogo con lo spazio storico, ricreando un percorso che individua nel tema dell’interiorità il suo punto di svolgimento centrale. L’interiorità è indagata in una coesa compenetrazione tra dimensione visionaria e carnale. Eva Reguzzoni lavora con carta, filo e inchiostri, operando attraverso l’impressione, il ricamo, il disegno. Questi gesti diventano così evocativi dei processi mnemonici e cognitivi, oltre che fisici e sensibili. Le opere che nascono da questo progetto coinvolgono il metabolismo umano e naturale, dalle dinamiche cerebrali a quelle del nutrimento, della crescita e dell’evoluzione. Alimentare il corpo e l’anima è l’esperienza che riporta a un viaggio viscerale e allo stesso tempo ancestrale, senza categorie di tempo e di spazio.

L’inizio del viaggio. Il bivio
In principio emerge il tema atavico del dualismo che oppone la dimensione reale ed esperienziale a quella metafisica e ideale. Due arazzi riportano l’impressione, quasi la sinopia di un’ascensione delle forme vitali,  nell’aspirazione alla leggerezza e alla volatilità eterea. L’artista si concentra sulle due tematiche del colore e del nero nella quadratura bianca del foglio di carta. In Flora nera il colore scuro, incisivo nei contrasti, opaco nelle impressioni e nei punti di filo decisi, coglie tutti gli elementi d’ombra dell’inquietudine dell’animo umano, in una sorta di compendio del lato dionisiaco dello spirito, punto di convergenza delle passioni istintuali, immediate, sensibili, sradicate da un habitat terreno. In Flora coloreritorna la conflittualità dell’artista verso il cromatismo, mezzo sperimentale e razionalizzato nella sua produzione. L’aspetto apollineo del pensiero è confermato dall’uso di fili di seta luminosi e da contrasti dinamici che sottolineano la natura eterea dell’intelletto. Negli arazzi la forma vegetale è prediletta da Reguzzoni per narrare la fragilità fugace di questa trasmigrazione tra terra e cielo.

La scoperta. L’interiorità fisica
Il mistero dell’inconoscibilità svelata affiora con prepotenza nel pieno dell’itinerario. L’installazione Visceraleè sintomatica del ricorso alle forme organiche e carnali a cui l’artista allude nel dialogo con la galleria di ritratti della serie Ancestrali- tra l’anatomico e il vegetale – che rivendica all’esperienza interiore una dimensione corporea e fisiologica. Uno squarcio terreno esprime tutta la forza dello spirito infero della terra, rappresentata da forme incontenibili che irrompono con propaggini tentacolari, scoprendo il magma materico che si colloca nell’interiorità. Non solo la mente con i suoi contrasti tra passione e raziocinio, ma anche il corpo fisico ha una dimensione interiore che è inafferrabile, misteriosa e sfuggente al controllo umano.

Il ritorno. Ciò che rimane
Infine, l’allestimento su un tavolo di un piccolo museo portatile raccoglie in teche di vetro le impressioni dell’artista che con la gestualità ibrida tra disegno e cucito coglie l’aspetto storicizzato di forme che giocano tra anatomia e natura, tra nascita, quiescenza e ricordo. Lo stato d’animo, la metamorfosi e l’indagine anatomica sono inseriti in una Wunderkammer di fossili, di reperti paleontologici che testimoniano come memorabilia il ritorno di Er dal suo viaggio nel mistero.


 

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NON MI LEGO, NON MI NEGO

Agosto 2013

Testo a cura di Fabio Carnaghi

Traiettorie geopsichiche imbastiscono trame che esplorano l’esistenza cerebrale con le sue dinamiche intellettuali. Sembra di addentrarsi in una concettuale mappatura filosofico/anatomica che indaga la sensorialità dell’intelletto in un ciclo di espressione e impressione. L’evocazione metaforica del segno, inteso letteralmente come filo, cuce e ferma le dinamiche sulla tabula rasa dello spazio psichico, sia esso controllato o inconscio. La risoluzione del tratto rigorosamente nero genera l’equivoco dell’intercambiabilità con le imbastiture organiche, che nella serie Non mi lego, non mi nego evocano processi mentali annotati sulla carta. Il punto del filo con le sue gabbie costituisce il pattern/campitura di un paesaggio che assume la tridimensionalità minima, divenendo tattile e conferendo concretezza al fenomeno sensoriale. Il processo mnemonico si identifica con le dinamiche del costruire, ricostruire e decostruire concetti nello spazio della (ri)elaborazione inventiva. Lo stato d’animo ora è infiorescenza, ora paesaggio corporeo che gioca sull’equivoco tra interno e interiore. Si delinea una rappresentazione che guarda alla natura per individuare il metamorfismo della sfera intellettuale: la generazione delle forme vitali primarie, l’innata armonia bioritmica, il camouflage di simmetrie imperfette. La rappresentazione dello stato intellettuale ha inoltre un interessante riferimento all’investigazione della corporeità anatomica nel ricorso alla memoria del corpo umano per esplicitare il transfert dell’invisibilità in dato visibile. L’effetto di una suggestione quasi orientalistica per un minimalismo gestuale restituisce la leggerezza di una scrittura visionaria che sperimenta il linguaggio inafferrabile del mistero dell’interiorità.


 

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STATI D’ANIMO

Ottobre | 2013

Testo a cura di Manuela Ciriacono

Negli ultimi due anni la ricerca artistica di Eva ha conosciuto un’evoluzione significativa, che l’ha portata ad abbandonare il linguaggio pittorico per fare entrare nel proprio codice espressivo alcuni materiali privilegiati – filo, garza e carta velina – con cui ha oltrepassato la bidimensionalità della tela ed ha iniziato a imbastire una nuova estetica giocata su una matericità appena accennata e su sensazioni di leggerezza, trasparenza, sospensione. Il modulo quadrato, ereditato dal suo lavoro come disegnatrice archeologica, ed impresso sulla carta velina attraverso la superficie di una garza imbevuta d’inchiostro, ha costituito la matrice con cui Eva è riuscita a rendere visibile e tangibile un processo – interiore ed esteriore – di rottura degli schemi e di progressiva liberazione/lacerazione di una forma precostituita: la rigida griglia geometrica di partenza, data dall’accostamento regolare e simmetrico dei moduli, si trasforma così in una sagoma dai contorni sfuggenti, imperfetta, irregolare e discontinua, ma sempre più in armonia con il vuoto che la circonda, sempre più intrisa di una femminilità che cerca di emergere, tra le pieghe morbide di un tessuto impalpabile. La garza applicata e la sua impronta diventano la modalità privilegiata con cui Eva rappresenta un processo di “svelamento” interiore, rompendo gli “involucri” della propria anima e mostrando ciò che essa nasconde: “forme fluttuanti che prendono vita e corpo nella mia immaginazione … sono prive di peso, sono sospese nello spazio vuoto alla ricerca di una propria dimensione” dichiara l’artista. Con i suoi ultimi lavori Eva compie un ulteriore passo avanti nel tentativo di dare forma alle proprie emozioni: inabissandosi nelle profondità del proprio Io, traccia un vero e proprio diario psico-fisico in cui registra, su supporto di carta velina o di carta assorbente, le corrispondenze tra gli input emotivi provenienti dal mondo esterno ed i mutamenti interiori da questi generate. Senza abbandonare il suo modus operandi, Eva traccia le coordinate di un paesaggio invisibile, ma non per questo irreale. Constatando, in prima persona, il “filo” diretto esistente tra mente e corpo ed annotando l’incredibile mutevolezza dell’animo umano, Eva utilizza ago e filo, garza ed inchiostro, per rappresentare quel groviglio di sensazioni racchiuse dentro ognuno di noi. Con un approccio meticoloso, quasi scientifico, Eva persegue il tentativo, per niente banale, di tradurre in segno grafico lo stadio in cui l’emozione/sensazione viene registrata dal cervello, andando ad occupare uno spazio all’interno di esso, quindi assumendo una precisa conformazione fisica, più o meno astratta. Ne risulta un campionario emotivo, in cui poter individuare gli alti e bassi dell’umore, la forma di un preciso sentimento (condiscendenza, sopportazione …), l’eterno dissidio tra pensiero positivo e pensiero negativo, in cui, per la prima volta, interviene anche il colore per simboleggiare, in contrasto al segno nero, gli stati d’animo positivi.