Interviste

Un dialogo aperto

Conversazione tra Eva Reguzzoni e Rossella Moratto

La ricerca di Eva Reguzzoni può sembrare a prima vista anacronistica, un guardare a ritroso che lascia all’oggi reperti e tracce. Ma a uno sguardo più attento, il suo  non è un viaggio temporale ma intimo, viscerale, che percorre la dimensione irrazionale del preconscio per aprire un interstizio tra interno ed esterno, tra conscio e inconscio, facendo emergere sentimenti e tensioni, emozioni e desideri che si transustanziano nella materia trasformata così in una seconda pelle su cui si imprimono i segni del proprio vissuto e l’ineludibile inevitabilità del caso. La sua è un’azione sottile ma potente, destabilizzatrice e potenzialmente distruttiva, che dà forma, nella transitorietà del frammento, all’irrazionalità, alla memoria e al sentimento. Un’azione che si espande, a tratti viralmente, nello spazio per accumulo e libera associazione.  Una ricerca che richiede riflessione e ascolto. 

Rossella Moratto: Il tuo lavoro è dichiaratamente legato a una pratica introspettiva. È una sorta di liberazione dell’inconscio, dell’irrazionale, degli aspetti che normalmente vengono scartati. Qual è il percorso che ti ha portato a questa scelta?

Eva Reguzzoni: Penso sia stato il tempo dedicato all’ascolto del mio corpo e il fatto di essere una persona sensibile alle variazioni degli stati emotivi a darmi la possibilità di indagare inconsapevolmente una direzione intima e liberatoria che, a poco a poco, ha iniziato a definirsi sotto diversi aspetti cognitivi che non avevo ancora analizzato in precedenza. Ricercare in profondità, scavare nell’inconscio. Trovare qualcosa che mi facesse star bene.

La mia domanda ricorrente è sempre stata ed è ancora: cosa senti? Come ti poni? Che cosa vuoi esprimere con la tua pratica artistica? Ed ecco che, attraverso queste domande, mi sono creata un mio percorso che indaga e rielabora le tensioni e i traumi inconsci. È stato difficile intuirlo durante le ore di ricerca passate a lavorare intensamente per sviluppare un filo conduttore ideale alla mia personalità. Mi piace pensare al mio lavoro come se fosse un rifugio irrazionale, la scelta di liberare la parte non razionale, il germe emozionale che i sentimenti producono nella mente. 

Hai scritto: “Nella mia ricerca artistica mi piace creare un legame profondo con il mio interno ed esterno, tra l’immaginario e il reale”. L’opera dunque è un filo diretto tra esterno e interno che dà forma alle tensioni interne senza mediazioni?

Il lavoro dell’artista trasmette tutto quello che sente dentro e lo traduce fuori; è un focolare da alimentare costantemente. Il canale o il filo va sempre alimentato per dare agio alla spontaneità di evadere… è un’attitudine di scambio che contamina il dentro e il fuori, una prassi che unisce e consolida le tensioni.

Lo stretto legame tra interiorità ed esteriorità mi fa pensare che la materia per te sia la metafora della carne, come evidenziano anche alcune serie di ceramiche con cui hai ricreato una tua personale anatomia.

Tutto ritorna vero? Sì, un’anatomia interna, di reni, cuore, segmenti di arterie e ossa. Gli apparati in concotto sono dei fossili vitali che trasmettevano linfe per alimentare il corpo e la mente. Erano carichi di emozioni silenziose. La materia nelle mie mani si plasma, si adatta alle più intime necessità, trasmette sensazioni, lascia tracce.

Il tuo approccio empirico lascia necessariamente ampio spazio al casoallassociazione libera e alladisgregazioneallautomatismo e allinstabilità. I tuoi lavori riflettono questa inclinazione e sono anch’essi, in questo senso, imprevedibili, dunque imperfetti: dei non-finiti. L’opera, proprio per questa sua caratteristica, concentra l’intenzionalità restituendola come senso e possibilità. Concordi con questa definizione?

Io sperimento sempre e non temo di ripetermi perché in ogni passaggio ottengo nuovi spunti, mi piace variare il mio lavoro e non definirlo. Non bado alla forma estetica ma al processo creativo che l’ha generata. Le mie opere sono fatte di gesti manipolatori, approcci tecnici-sentimentali di rottura e sconfinamento. 

Le tue opere plastiche – mi riferisco in particolare alle sculture in ceramica della serie Blood o Ancora crudi o anche Rogo di Argille – vanno in direzione contraria alla stabilità abitualmente associata alla scultura classicamente intesa

Cerco l’imperfezione che non è mai ripetibile. Le mie sculture delle serie BloodAncora crudi e Rogo di Argillema anche altre, durante la lavorazione a crudo e dopo le cotture acquisiscono forme e significati diversi. Io penso e modello una forma con la terra, ma poi questa forma, con lo shock termico, si stravolge e la scultura acquista così nuove valenze. Di fatto è vero… i miei sono processi creativi che si allontanano dai canoni della forma classica in scultura.

Questa caratteristica della non finitezza la riscontro anche nei tuoi disegni, RicamiVeline e Assorbenti, dove si evidenza anche nella leggerezza e nella fragilità del materiale scelto come supporto, nella casualità degli esiti delle impronte, così come negli andamenti non lineari, rizomatici che sembrano suggerire infiniti sviluppi… 

Sì, è vero, anche i lavori bidimensionali in carta rispecchiano l’imprevedibilità formale delle sculture. I disegni, come impronte, annotano e imprimono percorsi e pensieri. Il candore della superficie rispecchia la fragilità dell’atto e la casualità del gesto, le deviazioni e i percorsi aggrovigliati scavano, escono e si sviluppano oltrepassando il supporto in carta velina o carta assorbente dando vita a sviluppi instabili.

Vorrei soffermarmi sulle impressioni a contatto… ricordando che hai definito il tuo lavoro come una pratica autoterapeutica, mi vengono in mente le macchie di Rorschach… c’è una connessione?

È vero, le tavole di Rorschach ricordano le mie impressioni a macchie d’inchiostro. Mi ricordo di un fatto passato. Cercavo una superfice leggera su cui annotare dei segni – non di matita o di pennello ma qualcosa di diverso più mentale che fisico –, la possibilità di “abbandonare” con un semplice gesto una traccia sulla superfice. Avevo la necessità di lasciare qualcosa di visionario associato al pensiero e ho realizzato delle impronte. Un atto involontario o l’intenzionalità dell’atto? Ambiguità o evocazione? Credo che il mio bisogno di ricercare suggestioni evocative sia come un esame della realtà per la corretta rappresentazione del sé… 

Il caso entra in modo prepotente nei tuoi lavori – penso in particolare alle ceramiche, la cui forma finale dopo la cottura è difficilmente prevedibile –  a volte con un esito perfino distruttivo. Ci sono delle opere che consideri non riuscite, degli scarti?

Qui gioca a mio favore l’archivio di produzione. Cosa intendo per archivio di produzione? A volte se un lavoro dettato dal caso non risponde a un buon risultato, lo archivio in cassette e lo lascio lì, semplicemente per un possibile prossimo utilizzo. Oppure dopo aver selezionato degli oggetti scartati, li ricuocio una seconda volta in buca o nel forno per ceramica per vedere se nascono nuovi aspetti per poterci lavorare ancora. Forse questo è sinonimo di distruzione? 

Direi piuttosto di trasformazione, anche in un’ottica di riciclo. In alcuni tuoi lavori hai utilizzato anche degli oggetti, come vecchie statuette, vasi, pezzi di stoffa o frammenti di arazzi…

Il contrario di distruzione nel mio caso è potenziamento, valorizzazione e anche esaltazione e tutti sono processi connessi con la trasformazione. Con questo si coglie tutto il mio lavoro di metamorfosi, anche in un’ottica di riciclo degli oggetti a me cari che hanno segnato particolari situazioni e/o affezioni.

L’altro aspetto affascinante delle tue opere è il carattere spurio, contaminato: mescoli tecniche e pratiche diverse, raramente rifinisci e ripulisci i lavori. Vuoi ribadire anche in questo modo il filo diretto tra interno ed esterno?

Si è vero! Questo è il mio processo creativo; accetto, mescolo, abbandono, ma anche il tempo fa la sua parte; sedimenta le idee in attesa di un nuovo e diretto collegamento tra dentro e fuori. La mia ricerca racchiude ideali di leggerezza – la carta e non solo – e di rapporto fisico plasmabile con la materia – l’argilla e non solo – media che mi permettano di dialogare con l’aspetto interiore ed esteriore della forma. I miei gesti manipolatori sono approcci sentimentali, nascono di getto in quel determinato momento e, come un filo, collegano la mia mente con le mani e mi conducono nella parte profonda di me.

Anche la scelta dei titoli è in questo senso indicativa: suggerisci delle chiavi di lettura…

Sì, i titoli nascono sempre dalle sensazioni che sento nascere da un particolare evento emotivo. Quando lavoro, mi scollego dal corpo e le mani fanno il loro compito, guidate dalla percezione tattile e cognitiva del momento che sto registrando con la mente e poi tutto inizia a prendere forma e tensione o accarezza la superficie. 

Anche il modo di allestire i lavori riflette a mio parere questa attitudine: sono spesso disposti e organizzati in accumulo e in equilibrio precario…

Lavoro di solito in serie, le opere nascono e si estinguono sul mio tavolo in studio o nella mia buca in giardino. Il più delle volte con questa molteplicità di forme ho assolutamente la necessità di installare con modi accumulativi o anche virali che invadono lo spazio oppure mi piace appoggiare i lavori su supporti occasionali che trovo nel mio studio che fungono da perno di supporto con la funzione di aiuto morale e di forza. 

Provieni da una formazione archeologica: che ruolo ha avuto la conoscenza e la fascinazione per questo tempo remoto nelle tue scelte artistiche?

Come professione sono restauratrice archeologica e credo che questa contaminazione esplorativa verso il primitivo abbia fortemente influenzato il modo di operare nella mia ricerca.

Infatti, molti dei tuoi lavori hanno un aspetto di resti, reperti che spesso hai allestito all’interno di teche ed esposto in musei archeologici tra reperti reali come se fossero anch’essi ritrovamenti, come nel caso di Presunto presso la cappella votiva a Castello di Cabiaglio e Archivi del sé al Museo Archeologico di Mergozzo nel 2018.

Presunto Archivi del sé sono stati disposti come se fossero dei ritrovamenti in una preliminare classificazione. Cercavo anche una situazione appropriata per verificare un approccio-confronto per i miei manufatti con il reale. In entrambi i casi, le due testimonianze si sono fuse perfettamente. Da queste mostre è nata un’immersione totale nella quale si faceva fatica a capire quale fosse il reperto reale o il mio manufatto…

Anche alcune tecniche che utilizzi provengono da suggestioni antiche, penso ai tuoi  concotti… 

Le ceramiche concotte sono oggetti sordi, sensibili e di aspetto grezzo ma preziosi e si presentano come manufatti instabili e fragili rivestiti da una nuova pelle cromatica o avvolti con filo in metallo. La loro cottura o la parziale stabilizzazione avvengono nella buca che ho scavato nella terra del mio giardino e nella quale il calore del fuoco, generato dalla combustione della legna recuperata dagli alberi del mio terreno, trasforma la materia e genera fratture o frammentazioni, consolidando così l’aspetto finale e precario delle mie sculture. Questa mutazione è dovuta allo stress termico ed è per me emblema di quella che nasce come reazione ai diversi stati emotivi dovuti ai repentini sbalzi d’umore che, come solchi, ci segnano e frammentano la nostra percezione sensoriale. 

Oltre alle sculture in concotto, mi parli delle serie in terraglia Impressioni rupestri Pelle di serpente,che hai realizzato durante la residenza organizzata con l’associazione Arteam ad Albissola Marina nel 2018? Qui hai usato una tecnica che unisce modellazione e impressione…

Impressioni rupestri e Pelle di serpente sono i nuovi lavori elaborati con questa particolare tecnica di impressione delle superfici, grazie alla quale trasferisco le immagini prodotte sulla carta. La finalità del progetto di residenza è stato quella di individuare un processo e consolidarlo su supporti bidimensionali e tridimensionali.

Tra le tecniche che hai usato, alcune sono tipicamente legate a un artigianato femminile: mi riferisco al ricamo, al cucito e anche all’uncinetto con cui hai realizzato Girocolli delle catenelle che formano delle collane, quindi da indossare…

Del ricamo mi interessa l’atto esplicito del passaggio tra due superfici dentro e fuori come una pelle sensibile sulla quale adagio le mie impressioni e le valorizzo con il cucito. Queste opere sono come un abito che indosso su misura oppure come un filo attorcigliato di catenelle che si possono indossare. 

Oltre al passato remoto, quali sono altre tue fonti di ispirazione e fascinazione? Ci sono artisti o opere che hanno influenzato il tuo lavoro?

Sono affascinata dalla carica emotiva ma silenziosa nella pittura di Francis Bacon. Il passato rimane comunque per me sempre un germe ricco di memorie e contaminazioni e il mio lavoro lo attualizza in contesto contemporaneo.  

Vivi e lavori a Borgo Ticino, in provincia di Novara, in una casa dove hai il tuo studio con un giardino-parco. Il quotidiano contatto con la natura ha una ricaduta sul tuo lavoro? È una fonte di ispirazione? Mi vengono in mente lavori realizzati sulle foglie come i delicati disegni sulle foglie di Banano in giardino oppure Foglie secche.

Si! Il mio giardino è il mio secondo studio e il luogo d’ispirazione principale dal quale attingo modi e idee per arricchire la mia tecnica e il mio linguaggio espressivo. Nella terra cuocio le mie opere in argilla e le trasformo in un processo di lenta sedimentazione. Come la lenta crescita delle piante e il loro contatto con la terra e l’aria che sviluppa le foglie. Nel mio giardino ci sono tre alberi dai quali mi sento particolarmente attratta, che sono il mio grande castano, il giovane banano e lo stupendo sambuco. Durante le stagioni mi piace raccogliere dai loro rami le foglie, osservare la loro crescita e le mutazioni che per me hanno un valore importante. Vedo in loro lo stesso che vedo in me, ovvero un corpo che si sviluppa e che diventa fragile alle mutazioni ambientalima che conserva una forte carica emotiva in un ciclo di attese che si ripetono annualmente.  

… E lo studio dove lavori? So che è un luogo particolare per te…

Il mio studio è il mio habitat prediletto. Un angolo remoto, un ventre dove far sedimentare idee, pensieri e lavori. Uno spazio fisico dove produco, archivio o semplicemente appoggio sui tavoli i miei vecchi e nuovi lavori in attesa di trovare un collegamento tra me e loro e forse, chissà, di destinarli ad una possibile nuova evoluzione.